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Corte di cassazione – Sezioni Unite penali – Sentenza 28 maggio-15 settembre 2009 n. 35490 (Presidente Gemelli; Relatore Romis; Pm – parzialmente difforme – Ciani; Ricorrente Tettamanti).

Sentenza penale – Declaratoria immediata di determinate cause di non punibilità – Sussistenza di una causa di estinzione del reato – Insufficienza o contraddittorietà della prova di responsabilità – Prevalenza di declaratoria immediata di estinzione – Limiti – Eccezioni – Fattispecie. (Cpp, articoli 129 e 530).

All’esito del giudizio dibattimentale, il proscioglimento nel merito, nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, posto che il giudice può pronunciare sentenza di assoluzione ex articolo 129, comma 2, del Cpp soltanto nei casi in cui le circostanze idonee a escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale ovvero la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente incontestabile, ferme restando le ipotesi in cui il giudice sia chiamato a dover approfondire ex professo il materiale probatorio acquisito. Ne deriva che il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova, solo nel caso in cui, ai sensi dell’articolo 578 del Cpp, il giudice di appello – intervenuta una causa estintiva del reato – è chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile; ovvero nel caso in cui a una sentenza di assoluzione in primo grado resa ai sensi dell’articolo 530, comma 2, del Cpp, appellata dal Pm, sopravvenga una causa estintiva del reato e il giudice di appello ritenga infondato nel merito l’appello del pubblico ministero.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza, pronunciata all’esito di giudizio abbreviato, in data 11 luglio 2001, il Tribunale di Teramo, in composizione monocratica, assolveva Alessandro Tettamanti, ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p., perché il fatto non costituisce reato, da uno dei fatti di appropriazione indebita («limitatamente alla somma di lire 50 milioni») contestatigli; dichiarava, al contempo, l’imputato colpevole per la residua imputazione – concernente altro episodio di appropriazione indebita – e lo condannava alla pena di mesi tre di reclusione e di lire 600.000 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.

Il Tribunale condannava, inoltre, l’imputato a risarcire il danno alle costituite parti civili, da liquidarsi in sede civile, ai sensi dell’articolo 539 c.p.p., ed a pagare alla parte civile Patrizia Tarquini, a titolo di provvisionale, immediatamente esecutiva, la somma di lire 8 milioni.

Disponeva, infine, che l’esecuzione della pena inflitta fosse sospesa ai sensi degli articoli 163 ss. c.p. e che, ai sensi dell’articolo 175 c.p., non fosse fatta menzione della condanna nel certificato del casellario a richiesta di privati.

Detta sentenza veniva appellata dalle parti civili e dall’imputato, mentre il pubblico ministero proponeva appello incidentale.

Con sentenza del 20 ottobre 2004 la Corte d’Appello dell’Aquila, in parziale riforma della decisione di primo grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti del Tettamanti in ordine ai reati allo stesso ascritti perché estinti per prescrizione; confermava le statuizioni civili e condannava l’imputato a rifondere alla parte civile le spese processuali del grado. I giudici dell’appello ritenevano che il reato «nella sua interezza» dovesse ritenersi prescritto, non potendosi applicare l’art. 129 c.p.p. in quanto sussistevano «chiare ed evidenti prove, illustrate nella completa sentenza di primo grado e non contraddette dai motivi di appello».

La Corte territoriale precisava altresì che, quanto all’addebito in relazione al quale era stata pronunciata sentenza di proscioglimento, gli elementi posti a base di detta statuizione, ancorché dubitativi, non rendevano processualmente possibile «anche in questo caso, il ricorso all’art. 129 c.p.p.» (pag. 3 della sentenza).

Avverso detta sentenza ha interposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, articolando quattro motivi.

Primo motivo: erronea applicazione dell’art. 129 c.p.p. e carenza di motivazione in ordine alle ragioni giustificatrici della meno favorevole pronuncia dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione.

Trattasi di censura che, per come enunciata ed argomentata, si riferisce specificamente alla declaratoria di prescrizione con la quale è stata riformata la sentenza assolutoria emessa dal primo giudice ai sensi dell’art. 530, secondo comma, c.p.p. in relazione ad uno degli episodi di appropriazione indebita contestati al Tettamanti.

Dopo aver trascritto i rilievi, devoluti al giudice di appello con una memoria con la quale era stata segnalata l’inammissibilità o l’infondatezza dell’appello della parte civile e di quello proposto, in via incidentale, dal pubblico ministero, il ricorrente deduce che la Corte d’Appello avrebbe omesso qualsiasi valutazione su tali impugnazioni, limitandosi ad affermare che gli elementi posti a base della pronuncia di primo grado, ancorché dubitativi, non rendevano processualmente possibile il ricorso all’art. 129 c.p.p. per la conferma dell’assoluzione ex art. 530, secondo comma, c.p.p., decisa dal primo giudice.

Richiamate la sentenza n. 13170 del 2002 della Corte di cassazione e le ordinanze n. 300 e n. 362 del 1991 della Corte costituzionale, il ricorrente, per un verso, evidenzia il vizio del ragionamento seguito dal giudice di appello, in quanto frutto di un’antistorica attribuzione di rilevanza penale al dubbio e in palese contrasto con i princìpi regolatori dell’attuale sistema processuale, e, per altro verso, sottolinea che, nel caso di specie, la conferma della sentenza nella parte relativa all’assoluzione non poteva incontrare ostacolo nel requisito dell’evidenza dei presupposti per il proscioglimento nel merito risultanti dagli atti (art. 129, comma 2, c.p.p.): anche ammesso che la declaratoria ex art. 129 c.p.p. possa atteggiarsi quale decisione rebus sic stantibus, la nozione di evidenza dovrebbe però considerarsi non fissa, ma variabile e dipendente dal quantum di conoscenza di cui il Giudice dispone, sicché mentre in una fase anteriore al dibattimento non vi sarebbe spazio operativo per l’art. 530 cpv. c.p.p. ai fini necessari per la valutazione dell’evidenza, lo stesso non potrebbe dirsi allorché la causa estintiva intervenga dopo che il dibattimento sia giunto al suo epilogo, giacché in tale caso il giudice potrà attingere alla regola di cui alla norma citata. La Corte d’Appello, nella concreta fattispecie, avrebbe omesso del tutto di dar rilievo ai rapporti tra l’art. 129 c.p.p. e la regola ex art. 530 cpv. c.p.p., dando luogo ad una decisione monca, priva di motivazione in ordine alla reformatio in peius e manifestamente illogica; sussisterebbero quindi i presupposti per il sindacato di legittimità, conformemente ad un principio in tal senso già affermato (viene ricordata Sez. IV, 27 aprile 2000 n. 9944).

Secondo motivo: violazione degli artt. 438, comma 5, e 190 c.p.p., in relazione all’art. 192 c.p.p.

Facendo richiamo alla sentenza n. 11037 del 2001 della Prima Sezione della Suprema Corte ed alla sentenza n. 115 del 2001 della Corte Costituzionale, il ricorrente sottolinea che da quest’ultima emergerebbe che in nessun caso lo sbocco del giudizio abbreviato, per effetto del condizionamento richiesto dall’imputato, potrebbe consistere in una surrettizia integrazione probatoria delle indagini preliminari condotte in termini di non sufficiente esaustività dal pubblico ministero, e ciò anche in considerazione del principio di economia processuale che regolamenta l’istituto in questione. Nel caso di specie, sia la regola di economia processuale, sia quella di inammissibilità delle prove superflue, sia il criterio fissato dalla sentenza n. 115 del 2001 del giudice delle leggi, sarebbero stati violati dall’ordinanza del giudice di primo grado che autorizzava la prova contraria a favore del P.M. Inoltre, la sentenza del Tribunale di Teramo e quella della Corte d’Appello dell’Aquila avrebbero obliterato il canone dettato dagli artt. 192 e 194 c.p.p., secondo cui sussiste per il giudicante l’obbligo di valutare con estremo rigore il contenuto della testimonianza della persona offesa (Sez. I, 8 marzo 2000 n. 7207, Di Tella; Sez. II, 11 giugno 1998 n. 3438, Di Salvo); in particolare, in nessun conto sarebbero state tenute le evidenti contraddizioni tra i querelanti, contraddizioni evidenziate nel ricorso in cui si sottolinea come non sia dato sapere «quale vestizione fornisca il processo a circostanze sfavorevoli all’appellante tali da averlo reso immeritevole di una formula assolutoria, prevalente su quella assunta ex art. 129 c.p.p.».

Terzo motivo: violazione dell’art. 646 c.p.

Si sostiene, in particolare, che l’usurpazione di un potere dispositivo spettante al dominus può significare abuso del possesso, ma non ancora necessariamente appropriazione; richiamate alcune decisioni della Suprema Corte, il ricorrente sottolinea che appropriarsi significa assoggettare la cosa altrui a una nuova signoria espropriandone con ciò stesso il dominus.

Nel caso di specie, mancherebbe negli atti di causa qualsiasi elemento in grado di dimostrare «l’intento convertitorio da parte del possessore e, soprattutto, di mistificazione della destinazione del danaro prescritta dal dominus…».

Quarto motivo: violazione degli artt. 61 n. 11 e 646 c.p.

Si afferma nel ricorso che le trattative intraprese dall’imputato si sarebbero svolte all’insaputa della parte offesa; ad avviso del ricorrente non si sarebbe mai prodotto l’abuso di relazioni, sicché la querela avrebbe dovuto essere considerata tardivamente proposta, con conseguente improcedibilità del reato e prevalenza della relativa formula di proscioglimento, ex art. 129 c.p.p., rispetto a quella prescelta dalla Corte territoriale.

ll procedimento è stato assegnato alla Seconda Sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza n. 13717 del 17 marzo 2009, dep. il 27 marzo 2009, ne ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 c.p.p.

Detto provvedimento, dopo aver ripercorso la motivazione della sentenza della Corte d’Appello oggetto di impugnazione e le censure dedotte, mette in luce, con riferimento al primo motivo di ricorso, l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, in ordine alla prevalenza o meno del «proscioglimento nel merito rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova».

Secondo un primo orientamento, la formula di proscioglimento nel merito non prevale sulla dichiarazione immediata della causa di non punibilità nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, a norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p.

Altro orientamento ritiene che in una situazione di incertezza probatoria debba prevalere la formula di merito ex art. 530, comma 2, c.p.p., rispetto alla declaratoria della causa di estinzione.

Un ulteriore indirizzo interpretativo ritiene occorra distinguere a seconda che la causa di estinzione del reato sia intervenuta nelle fasi anteriori al dibattimento ovvero all’esito dell’istruttoria dibattimentale.

Con decreto del 1° aprile 2009, il Presidente Aggiunto di questa Corte ha assegnato il ricorso in esame alle Sezioni Unite penali, fissandone la trattazione all’odierna udienza pubblica.

Con memoria in data 8 maggio 2009 il difensore delle parti civili Michele Frischia, Patrizia Tarquini e SO.GE.FI S.r.l., ha depositato una memoria con una serie di argomentazioni in ordine ai quattro motivi articolati dal ricorrente.

Per quanto concerne il primo motivo, viene richiamata la nozione di «evidenza» di cui all’art. 129, comma 2, c.p.p., che contrasta con il contenuto dell’art. 530, cpv., c.p.p.

Allorché il giudice rilevi il maturarsi dei termini di prescrizione deve soprassedere rispetto al giudizio di merito ed è obbligato a dichiarare l’estinzione del reato; la previsione di cui all’art. 129, comma 2, c.p.p., deroga agli effetti potenzialmente pregiudizievoli derivanti dalla declaratoria di improcedibilità quando dagli atti risulti evidente l’innocenza dell’imputato.

La nozione di «evidenza» imporrebbe per sua natura la radicale mancanza di «prove a carico» o la sussistenza di una o più «prove a discarico», tali da possedere un grado di certezza che permetta al giudicante di addivenire ad una pronuncia assolutoria senza un’approfondita analisi delle

risultanze istruttorie, ossia una disamina compiuta tra gli eventuali contrastanti elementi di prova. L’art. 129, comma 2, c.p.p. non potrebbe trovare applicazione in presenza di una mera contraddittorietà ovvero di un’insufficienza probatoria: in entrambe le ipotesi si devolverebbe al giudice un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze e ciò in netto contrasto con il contenuto della norma che richiede esclusivamente la rilevabilità de plano degli elementi a discarico dell’imputato. Richiamate alcune pronunce della Corte di cassazione, la memoria esclude che l’orientamento sostenuto comporti disparità di trattamento, alla luce del diritto dell’imputato a rinunciare alla prescrizione.

Quanto alla reformatio in peius evocata dal ricorrente, con la memoria in esame si evidenzia che la Corte d’Appello dell’Aquila, tenuto conto delle impugnazioni dell’imputato, del pubblico ministero e delle parti civili, era stata investita della più ampia cognizione del procedimento ed era competente, pertanto, a pronunciarsi sul capo (che aveva costituito) oggetto di assoluzione da parte del primo giudice, senza incorrere nel divieto di reformatio in peius: l’imputato, venuto a conoscenza dell’appello del P.M., avrebbe potuto rinunciare alla prescrizione.

Per quanto attiene al secondo motivo di ricorso, sarebbe legittima la richiesta del P.M., come prova contraria rispetto all’integrazione probatoria richiesta dall’imputato, di audizione delle persone offese, con conseguente correttezza dell’ordinanza di ammissione adottata dal Tribunale di Teramo.

In ordine al terzo motivo, i fatti dettagliatamente riportati nella sentenza del Tribunale (e confermati dal giudice di secondo grado) smentiscono integralmente gli assunti enunciati dal ricorrente, ed anzi dimostrano compiutamente le gravi responsabilità penali riferibili all’imputato sotto il profilo oggettivo e sotto quello soggettivo.

Il quarto motivo di ricorso, conclude la memoria, sarebbe destituito di fondamento giuridico alla luce della costante giurisprudenza di legittimità: al riguardo viene richiamata Cass. Sez. II, 12 ottobre 2000, n. 11078.

All’odierna udienza, il Procuratore Generale ha depositato note scritte, con articolate argomentazioni a sostegno delle conclusioni riportate in epigrafe.

Motivi della decisione

2. Il primo motivo di ricorso – formulato con specifico riferimento alla declaratoria di prescrizione pronunciata in secondo grado, con la quale è stata riformata la sentenza assolutoria emessa dal primo giudice ai sensi dell’art. 530, secondo comma, c.p.p. in relazione ad uno degli episodi delittuosi contestati al Tettamanti – investe la questione dei rapporti tra la declaratoria immediata di determinate cause di non punibilità ai sensi dell’art. 129 c.p.p. (nella concreta fattispecie, la prescrizione) e la pronuncia assolutoria per insufficienza o contraddittorietà della prova ex art. 530, comma 2, c.p.p.

La questione può così essere sintetizzata: «se il proscioglimento nel merito prevalga rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova».

2.1. Sul punto, come detto, si registra un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Secondo un primo indirizzo interpretativo, la formula di proscioglimento nel merito non prevale sulla dichiarazione immediata della causa di non punibilità nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, a norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p.

Nell’ambito di questo orientamento si pongono: Sez. III, 26 febbraio 1993 n. 3440, Gablai, rv. 194120; Sez. I, 22 marzo 1993, n. 5895, Ballerini, rv. 195107; Sez. V, 2 dicembre 1997 n. 1460, Fraticello; Sez. I, 30 giugno 1993 n. 8859, Mussone; Sez. III, 23 aprile 2002 n. 20807, P.m. in proc. Artico, rv. 221618; Sez. VI, 5 marzo 2004 n. 26027, Pulcini, rv. 229968; Sez. II, 18 maggio 2007 n. 26008, P.G. in proc. Roscini, rv. 237263; Sez. V, 16 luglio 2008 n. 39220, P.G. in proc. Ferrarese; Sez. II, 19 febbraio 2008 n. 9174, Paladini, rv. 239552.

Muovendo dalla considerazione che per l’applicazione dell’art. 129, secondo comma, c.p.p., è richiesta l’evidenza della prova dell’innocenza dell’imputato, i sostenitori di detto indirizzo ritengono che la formula di proscioglimento nel merito debba prevalere sulla causa di estinzione del reato – con obbligo per il giudice di pronunziare la relativa sentenza – solo allorquando i relativi presupposti (l’inesistenza del fatto, l’irrilevanza penale dello stesso, il non averlo l’imputato commesso) risultino dagli atti in modo incontrovertibile tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione avuto riguardo alla chiarezza della situazione processuale: in presenza di una causa estintiva del reato non è quindi applicabile la regola probatoria, prevista dall’art. 530, comma 2, c.p.p., da adottare quando il giudizio sfoci nel suo esito ordinario, ma è necessario che emerga «positivamente» dagli atti, senza necessità di ulteriori approfondimenti, la prova dell’innocenza dell’imputato. È stato affermato che, in questi casi, il giudice procede, più che ad un «apprezzamento», ad una «constatazione», con la conseguenza che non gli è consentito di applicare l’art. 129 c.p.p. in casi di incertezza probatoria o di contraddittorietà degli elementi di prova acquisiti al processo, anche se, in tali casi, il compendio probatorio con caratteristiche di ambivalenza potrebbe condurre all’assoluzione.

Secondo un altro orientamento, in una situazione di incertezza probatoria prevale la formula di merito ex art. 530, comma 2, c.p.p., rispetto alla declaratoria della causa di estinzione.

A detto filone giurisprudenziale vanno ricondotte: Sez. II, 21 giugno 1990 n. 5455/91, Lagodana, rv. 187510; Sez. IV, 8 marzo 1993 n. 3742, Fink, rv. 193878; Sez. V, 20 febbraio 2002 n. 13170, Scibelli, rv. 221257; Sez. II, 5 marzo 2004 n. 18891, Sabatini, rv. 228635; Sez. I, 16 settembre 2004, n. 40386, Fagan, rv. 230621; Sez. V, 18 gennaio 2005, Martelli, rv. 231567; Sez. V, 10 giugno 2008 n. 25658, Ganci, rv. 240450.

Tale indirizzo interpretativo si ispira fondamentalmente al principio che imponeva, nella vigenza del codice abrogato, l’equiparazione dell’ipotesi della sussistenza di prove dell’evidenza della non commissione del fatto all’ipotesi della mancanza assoluta della prova che l’imputato lo avesse commesso. Raffrontando il sistema vigente a quello precedente, è stato osservato che mentre l’art. 129 comma 2, c.p.p. vigente riproduce sostanzialmente l’art. 152 comma 2 c.p.p. 1930, l’art. 530 c.p.p. del 1988 equipara al secondo comma (così recependo le indicazioni di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 1975) la prova positiva dell’innocenza alla mancanza di prova della colpevolezza e a tali ipotesi anche quelle dell’insufficienza e della contraddittorietà della prova: non vi sarebbe pertanto alcun argomento sistematico per estrapolare dal secondo comma del citato art. 530 quest’ultima ipotesi, sottraendola al principio di equiparazione logico-sistematica.

Vi è poi un ulteriore orientamento che distingue a seconda che la causa di estinzione del reato sia intervenuta nelle fasi anteriori al dibattimento ovvero all’esito dell’istruttoria dibattimentale: nel primo caso si ritiene che la pronuncia di merito possa essere adottata solo in presenza della «evidenza» dell’innocenza dell’imputato richiesta dall’art. 129, comma 2, c.p.p. – non essendo stato acquisito ancora alcun significativo compendio probatorio e non potendo quindi essere espressa alcuna valutazione al riguardo – mentre, nel secondo caso, troverebbe applicazione l’equiparazione, di cui all’art. 530, comma 2, c.p.p., della prova insufficiente o contraddittoria, alle situazioni delineate nel primo comma della stessa disposizione.

Nell’ambito di questo orientamento vanno segnalate: Sez. II, 15 ottobre 1992 n. 1221/03, Tuliani, rv. 193017, Sez. VI, 13 gennaio 2005 n. 7272, De Angelis, rv. 231231.

2.2. Per un contributo ermeneutico ai fini della soluzione della questione in oggetto, relativamente alle formule da adottare, è opportuno richiamare la giurisprudenza della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite.

Con la sentenza n. 5 del 1975, la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 152, secondo comma, c.p.p. 1930, nella parte in cui non comprendeva tra le ipotesi in cui il giudice, ad istruttoria ultimata, doveva pronunciare sentenza di proscioglimento nel merito, anziché declaratoria di estinzione del reato per amnistia, anche il caso in cui mancava del tutto la prova che l’imputato avesse commesso il reato stesso.

Sul rapporto tra la disciplina ex art. 129, comma 2, c.p.p. e quella di cui all’art. 530, comma 2, c.p.p., è intervenuta poi la Corte Costituzionale con due ordinanze – la n. 300 e la n. 362 – del 1991.

Nel primo caso, il giudice a quo aveva sollevato, in relazione all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 129, secondo comma, c.p.p., affermando di essere pervenuto a giudizio di assoluzione per insufficienza di prove per i reati oggetto dell’imputazione e di non aver potuto assolvere ex art. 530 c.p.p. gli imputati con la formula «perché il fatto non sussiste», in quanto, rientrando il reato in questione nell’amnistia, si sarebbe dovuto applicare il secondo comma dell’art. 129 c.p.p., a termine del quale, in presenza di una causa estintiva, l’assoluzione nel merito prevale solo nel caso in cui risulti evidente l’innocenza dell’imputato.

A seguito del provvedimento di clemenza, sarebbe risultata preclusa all’imputato l’assoluzione con la più favorevole formula, mentre, nella stessa situazione probatoria di prova insufficiente, l’imputato del più grave reato non coperto da amnistia si sarebbe giovato della formula dell’insussistenza del fatto; il decreto di amnistia, al pari dell’intervento di ogni altra causa estintiva, dunque, finiva con il ridare rilevanza al dubbio probatorio, espunto dal sistema del nuovo codice, e gli imputati si sarebbero trovati assoggettati ad un’ingiustificata disparità di trattamento.

Dichiarando la manifesta infondatezza della questione, la Corte ha affermato che il principio della prevalenza delle formule assolutorie di merito su quelle dichiarative dell’estinzione del reato è razionalmente contemperato, anche a fini di economia processuale, con l’esigenza che appaia del tutto evidente dalle risultanze probatorie che «il fatto non sussiste» o che «l’imputato non lo ha commesso» o che «il fatto non costituisce reato» o «non è previsto dalla legge come reato». Comunque, l’applicazione dell’amnistia, nei confronti degli imputati per i quali non ricorrevano tali ipotesi, non concretava violazione del principio di eguaglianza, attesa la rinunziabilità della causa estintiva che – costituendo esplicazione del diritto di difesa – è posto a tutela del diritto «di chi sia perseguito penalmente ad ottenere non già solo una qualsiasi sentenza che lo sottragga alla irrogazione della pena, ma precisamente quella sentenza che nella sua formulazione documenti la non colpevolezza».

Il medesimo itinerario argomentativo è stato riproposto, con riferimento alla causa estintiva della prescrizione, dall’ord. n. 362 del 1991: in questo caso, il giudice costituzionale ha richiamato l’ord. n. 300 del 1991, sottolineando che con essa era già stata dichiarata la manifesta infondatezza della questione concernente l’applicazione dell’amnistia – questione sostanzialmente analoga a quella in esame – in base all’assorbente rilievo della rinunziabilità della causa estintiva.

A completamento delle decisioni del giudice delle leggi in materia, è opportuno un rapido cenno a quelle con le quali la Corte Costituzionale rilevò esplicitamente la incostituzionalità della mancata previsione della rinunciabilità delle cause estintive dell’amnistia e della prescrizione: rinunciabilità che è stata poi inserita nell’art. 157 c.p. con la legge 5 dicembre 2005, n. 251.

La prima, è la sent. n. 175 del 1971 con la quale fu dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 151, comma 1, c.p. 1930, per violazione dell’art. 24 Cost., nella parte in cui escludeva la rinuncia, con le conseguenze indicate in motivazione, all’applicazione dell’amnistia. La Corte Costituzionale sottolineò che «la rinunzia all’amnistia costituisce esplicazione del diritto di difesa, sembrando chiaro discendere da tale affermazione come in quest’ultimo sia da considerare inclusa non solo la pretesa al regolare svolgimento di un giudizio che consenta libertà di dedurre ogni prova a discolpa e garantisca piena esplicazione del contraddittorio, ma anche quella di ottenere il riconoscimento della completa innocenza, da considerare il bene della vita costituente l’ultimo e vero oggetto della difesa, rispetto al quale le altre pretese al giusto procedimento assumono funzione strumentale»; ed evidenziò, altresì, come all’interesse morale ad una sentenza di assoluzione con formula piena si affianchi quello patrimoniale, in quanto l’assoluzione da amnistia lascia integra – oltre ad eventuali responsabilità amministrative – l’azione civile al risarcimento del danno, laddove «corrisponde all’interesse dell’imputato di ottenere dal giudice penale una pronuncia che, ai sensi dell’art. 25 cod. proc. pen., e ricorrendone i presupposti, renda improponibile l’azione civile».

La sent. n. 275 del 1990 dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 157 c.p. 1998, per contrasto con gli artt. 3, comma primo, e 24, comma secondo, Cost., nella parte in cui non prevedeva che la prescrizione del reato potesse essere rinunciata dall’imputato.

La sentenza, muovendo dal duplice rilievo della discrezionalità della prescrizione in sede applicativa e del fatto che raramente le cause che portano al suo perfezionarsi sono ascrivibili all’imputato, osservò che dinanzi a questa realtà, il legislatore, nel disciplinare l’istituto sostanziale della prescrizione, doveva tener conto del carattere inviolabile del diritto di difesa, inteso come diritto al giudizio e, con esso, a quello della prova, e così conclusivamente si espresse: «è privo di ragionevolezza rispetto ad una situazione processuale improntata a discrezionalità, che quell’interesse a non più perseguire (sorto a causa di circostanze eterogenee e comunque non dominabili dalle parti) debba prevalere su quello dell’imputato, con la conseguenza di privarlo di un diritto fondamentale. Dev’essere, pertanto, affermata la rinunciabilità anche della prescrizione dichiarando la parziale illegittimità dell’art. 157 del codice penale che non la prevede».

2.3. Utili spunti di riflessione si rinvengono in Sez. Un., 9 giugno 1995 n. 18, P.G. in proc. Cardoni, rv. 202374 – 202375 che ha affermato i seguenti princìpi di diritto: «Il giudice per le indagini preliminari il quale, richiesto dell’emissione di decreto penale di condanna o dell’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., ritenga che dagli atti, pur non risultando la prova positiva dell’innocenza della persona sottoposta a indagini, risulti quella negativa della sua colpevolezza, nel senso radicale dell’impossibilità di acquisirla, deve, per evidenti ragioni di economia processuale, emettere sentenza di proscioglimento, e non restituire gli atti al Pubblico Ministero, il quale, peraltro, ha la possibilità di ottenere una nuova riflessione sul tema proponendo ricorso per cassazione» (rv. 202374); «Il giudice per le indagini preliminari può, qualora lo ritenga, prosciogliere la persona nei cui confronti il Pubblico Ministero abbia richiesto l’emissione di decreto penale di condanna solo per una delle ipotesi tassativamente indicate nell’art. 129 cod. proc. pen., e non anche per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova ai sensi dell’art. 530, comma secondo, stesso codice, alle quali, prima del dibattimento – non essendo stata la prova ancora assunta – l’art. 129 non consente si attribuisca valore processuale» (rv. 202375).

La decisione è intervenuta sulla questione relativa alla possibilità, per il giudice delle indagini preliminari, richiesto dal p.m. di emissione di decreto penale, di pronunciare sentenza di proscioglimento soltanto a norma dell’art. 129 c.p.p., ovvero anche per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova ai sensi dell’articolo 530, comma 2, dello stesso codice.

Per come si rileva dal testo della sentenza Cardoni, gli indirizzi delineatisi in materia, in seno alla giurisprudenza di legittimità, convergevano nell’attribuire rilevanza, nell’applicazione dell’art. 129 c.p.p., alla prova positiva della innocenza, così come convergevano nell’escludere che il giudice, richiesto della emissione del decreto penale, potesse, avvalendosi di tale norma, prosciogliere anche se le prove fossero mancanti, insufficienti o contraddittorie. Uno dei due orientamenti si era tuttavia posto l’ulteriore quesito, risolvendolo positivamente e sul quale fondamentalmente era stato richiesto l’intervento delle Sezioni Unite, se nel procedimento per l’emissione del decreto penale dovesse essere sottolineata anche la mancanza assoluta della prova, nel senso di prova mancante e non altrimenti acquisibile: la sentenza Cardoni ha aderito a quest’ultima impostazione.

Aderendo a quest’ultima impostazione, la sentenza Cardoni accoglie la tesi secondo cui la norma dell’art. 129, comma 1, c.p.p. non lascia spazio, nel procedimento per decreto, alla mancanza, alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova; tesi che trova conferma, nell’argomentare della sentenza, nel secondo comma della citata disposizione, che regola il concorso processuale tra una causa di estinzione del reato e una formula di assoluzione nel merito, stabilendo la prevalenza della formula di assoluzione nel merito ogni volta che sia assistita dall’evidenza della prova.

Altri spunti di possibile interesse si ricavano da decisioni delle Sezioni Unite che hanno contribuito a delineare determinati profili della disciplina degli istituti che vengono in rilievo nel caso in esame.

La ricostruzione degli ambiti applicativi della declaratoria immediata di cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p. e del proscioglimento pre-dibattimentale di cui all’art. 469 c.p.p. si deve a Sez. Un. 19 dicembre 2001 n. 3027/02, PG in proc. Angelucci, rv. 220555: «La sentenza di proscioglimento predibattimentale di cui all’art. 469 cod. proc. pen. può essere emessa solo ove ricorrano i presupposti in esso previsti (mancanza di una condizione di procedibilità o proseguibilità dell’azione penale ovvero presenza di una causa di estinzione del reato per il cui accertamento non occorra procedere al dibattimento) e sempre che le parti, messe in condizione di interloquire, non si siano opposte, in quanto non può trovare applicazione, in detta fase, la disposizione dell’art. 129 stesso codice che presuppone necessariamente l’instaurazione di un giudizio in senso proprio. Avverso la predetta sentenza, anche se deliberata al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, l’unica impugnazione ammessa è il ricorso per cassazione».

La sentenza Angelucci sottolinea la portata generale dell’art. 129 c.p.p. sicché l’art. 469 c.p.p., se non escludesse la contemporanea applicazione dell’art. 129 c.p.p., costituirebbe un inutile doppione nel sistema. Laddove fa riferimento ad «ogni stato e grado del processo», l’art. 129 c.p.p., sottolinea la sentenza in esame, «deve essere inteso in relazione al giudizio in senso tecnico, ossia al dibattimento di primo grado o ai giudizi in appello ed in cassazione, perché quelle sono le fasi in cui si instaura la piena dialettica processuale tra le parti e si dispone di tutti gli elementi per la scelta delle formule assolutorie più opportune, rispettando le legittime aspettative dell’imputato. Nella fase predibattimentale dell’attuale processo (diversamente la questione poteva porsi in base all’art. 152 c.p.p. del 1930) la fondamentale cesura tra fase dell’indagine e fase del dibattimento porta ad escludere che possa emettersi una sentenza allo stato degli atti ex art. 129 c.p.p.».

Sez. Un., 25 gennaio 2005 n. 12283, P.G. in proc. De Rosa, ha affrontato la questione se il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta del p.m. di rinvio a giudizio, possa in applicazione dell’art. 129 c.p.p. pronunciare immediatamente, in presenza di una causa di non punibilità, sentenza di non luogo a procedere senza fissare l’udienza preliminare, risolvendola nel senso di cui al principio così massimato: «Il giudice dell’udienza preliminare, investito della richiesta del P.M. di rinvio a giudizio dell’imputato, non può emettere sentenza di non doversi procedere per la ritenuta sussistenza di una causa di non punibilità senza la previa fissazione della udienza in camera di consiglio. (La Corte ha osservato che l’art. 129 cod. proc. pen. non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore ed autonomo rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l’epilogo proscioglitivo nelle varie fasi e nei diversi gradi del processo – artt. 425, 469, 529, 530 e 531 stesso codice -, ma enuncia una regola di condotta rivolta al giudice che, operando in ogni stato e grado del processo, presuppone un esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio)» (RV. 230529).

3. Ritengono queste Sezioni Unite di dover aderire al primo degli orientamenti sopra illustrati.

Dal panorama giurisprudenziale – costituzionale e di legittimità – emerge chiaramente che, ai fini della soluzione della questione che in questa sede rileva, occorre soffermarsi, in particolare, sulla nozione di «evidenza» (art. 129, comma secondo, c.p.p.), per passare poi all’esame dei princìpi dell’economia processuale e del diritto alla prova.

3.1. Per quel che riguarda il presupposto della evidenza della prova dell’innocenza dell’imputato – ai fini della prevalenza della formula di proscioglimento sulla causa estintiva del reato – in giurisprudenza è stato costantemente affermato, senza incertezze o oscillazioni di sorta, che il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, al punto che la valutazione da compiersi in proposito appartiene più al concetto di «constatazione» (percezione ictu oculi), che a quello di «apprezzamento», incompatibile, dunque, con qualsiasi necessità di accertamento o approfondimento; in altre parole, l’«evidenza» richiesta dall’art. 129, comma 2, c.p.p. presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia.

Tale significato deve essere decisamente riaffermato anche in questa sede, perché assolutamente condivisibile.

3.2. La valenza della disposizione prevista dall’art. 129, secondo comma, c.p.p., in relazione al principio dell’economia processuale – ribadito anche in epoca recente con la ritenuta necessità della ragionevole durata del processo – è stata sottolineata già con risalenti pronunce della Corte Costituzionale, in particolare con il richiamo all’economia processuale di cui all’ordinanza n. 300 del 1991, nonché con la stessa sentenza delle Sezioni Unite Cardoni, nella quale è stato ribadito che la norma dell’articolo 129 c.p.p. vigente, come già quella dell’articolo 152 dell’abrogato codice di rito, tende, tra l’altro, ad assicurare la speditezza, l’immediatezza, l’economia del processo.

3.3. Il diritto alla prova, poi, trova espressa previsione normativa nell’art. 190 c.p.p.; in particolare, il diritto alla prova contraria risulta garantito all’imputato dall’art. 495, comma secondo, c.p.p. in conformità dell’art. 6, par. 3 lett. d) della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e del Patto internazionale sui diritti civili e politici, e attualmente a livello costituzionale dall’art. 111, comma terzo, della Costituzione.

3.4. Quanto alla individuazione del momento processuale in cui l’evidenza (e non anche la contraddittorietà o l’insufficienza) della prova dell’innocenza dell’imputato impone al giudice, pur in presenza di una causa di estinzione del reato, di pronunciare la sentenza di proscioglimento nel merito, taluni punti fermi sono stati già condivisibilmente posti dalle decisioni delle Sezioni Unite, sopra ricordate.

E, tenuto conto degli approdi cui sono già pervenute le Sezioni Unite con le decisioni innanzi richiamate, deve concludersi che la questione concernente i rapporti tra il proscioglimento nel merito per insufficienza o contraddittorietà della prova e la causa di estinzione del reato rilevi, allo stato, esclusivamente con riferimento alla fase del giudizio.

Come già si è accennato, ritiene il Collegio corretta la scelta ermeneutica del primo indirizzo giurisprudenziale, tra quelli, sopra illustrati, che hanno dato vita al contrasto de quo: devono, pertanto, essere approfondite ed illustrate le ragioni che giustificano tale scelta.

Il punto di partenza è ravvisabile nel percorso motivazionale seguito dalle Sezioni Unite nella sentenza De Rosa. Tale decisione ricostruisce le finalità della disciplina ex art. 129 c.p.p., collocandole sul duplice piano del principio di economia processuale (exitus processus) e della tutela dell’innocenza dell’imputato (favor rei). Sulla base di questo inquadramento, le Sezioni Unite rilevano che «l’art. 129, collocato sistematicamente nel titolo II del libro secondo del codice tra gli atti e provvedimenti del giudice, non attribuisce a costui un potere di giudizio ulteriore, inteso quale occasione – per così dire – atipica di decidere la res iudicanda, rispetto a quello che gli deriva dalle specifiche norme che disciplinano i diversi segmenti processuali (art. 425 per l’udienza preliminare; art. 469 per la fase preliminare al dibattimento; artt. 529, 530 e 531 per il dibattimento), ma, nel rispetto del principio della libertà decisoria, detta una regola di condotta o di giudizio, la quale si affianca a quelle proprie della fase o del grado in cui il processo si trova e alla quale il giudice, in via prioritaria, deve attenersi nell’esercizio dei poteri decisori che già gli competono come giudice dell’udienza preliminare o del dibattimento di ogni grado. Tale regola prevede l’obbligo (recte dovere) dell’immediata declaratoria, d’ufficio, di determinate cause di non punibilità che il giudice riconosce come già acquisite agli atti. Si è di fronte ad una prescrizione generale di tenuta del sistema, nel senso che, nella prospettiva di privilegiare l’exitus processus ed il favor rei, s’impone al giudice il proscioglimento immediato dell’imputato, ove ricorrano determinate e tassative condizioni, che svuotano di contenuto – per ragioni di merito – l’imputazione, o ne fanno venire meno – per la presenza di ostacoli processuali (difetto di condizioni di procedibilità) o per l’avverarsi di una causa estintiva – la effettiva ragion d’essere». La norma di cui all’art. 129 c.p.p. «…non è alternativa ad altre previsioni di analoghi effetti, né entra in conflitto con queste, ma, affiancando e integrando tali previsioni, definisce meglio, per tempi e modalità, i poteri decisori del giudice…».

D’altra parte, prosegue ancora la sentenza De Rosa, è sintomatico che l’art. 129 c.p.p. si limiti a prevedere la già evidenziata regola di condotta o di giudizio e ne imponga al giudice l’osservanza «in ogni stato e grado del processo», senza nulla disporre in ordine al rito da seguire per la «immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità», il che conferma che tale norma, sotto il profilo dei tempi e dei modi di applicazione, deve trovare attuazione nel corso delle fasi e dei gradi del processo e nell’ambito della corrispondente disciplina prevista, alla quale deve uniformarsi. L’espressione «immediata declaratoria», presente soltanto nella rubrica dell’art. 129 c.p.p., assume una valenza diversa da quella percepibile prima facie: non denuncia, evidenziano le Sezioni Unite, una connotazione di «tempestività temporale» assoluta (fino a legittimare, pur nel silenzio della norma, il rito de plano), ma evidenzia che, qualora ne sussistano le condizioni, tale declaratoria deve avere la precedenza su altri eventuali provvedimenti decisionali adottabili dal giudice. La norma ex art. 129 c.p.p. – precisa ancora la sentenza in argomento – non può essere ritenuta superflua: essa «non è ripetitiva di forme e poteri decisori previsti, nella sede specifica (artt. 425, 469, 529 e ss. c.p.p.), dal sistema e funzionali all’opzione proscioglitiva che può definire la fase o il grado del processo, ma è integrativa – sotto il profilo modale – di tali forme e poteri, che, pur nel contemperamento di valori concorrenti, devono tendenzialmente assicurare la semplificazione del processo e il favor rei».

Le ampie considerazioni svolte nella sentenza De Rosa, e gli argomenti addotti a sostegno dei princìpi ivi enunciati, inducono, dunque, a dissentire da quell’orientamento secondo cui, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, pur in presenza di una causa estintiva, dovrebbe essere comunque applicato il secondo comma dell’art. 530 c.p.p. in virtù del quale la prova insufficiente o contraddittoria è equiparata alle situazioni delineate nel primo comma dello stesso articolo. A voler seguire detta opzione ermeneutica, non si comprenderebbe il riferimento contenuto nel primo comma dell’art. 129 c.p.p. – in relazione all’obbligo di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, ivi compresa, quindi, la causa di estinzione del reato – ad «ogni stato e grado del processo», così come non si comprenderebbe il richiamo, nel secondo comma dello stesso articolo, all’art. 531 c.p.p. (norma, questa, che segue l’art. 530 c.p.p. dedicato alla sentenza di assoluzione con l’indicazione delle relative formule) secondo cui il proscioglimento nel merito deve prevalere sulla causa di estinzione del reato se dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato.

A ciò aggiungasi che già prima della sentenza De Rosa, le Sezioni Unite, con la sentenza Cardoni, avevano avuto modo di fornire analoghe indicazioni.

Ma è soprattutto il contenuto dell’art. 531 c.p.p. a dare una conferma normativa a quanto fin qui detto, nella parte in cui è espressamente previsto l’obbligo della pronuncia di sentenza di non doversi procedere in presenza di una causa estintiva del reato, «salvo quanto disposto dall’art. 129 , comma 2,», vale a dire tranne nel caso in cui vi sia la prova evidente della insussistenza del fatto o della sua non commissione da parte dell’imputato o della sua irrilevanza penale. Situazione questa ben puntualizzata da Sez. III, 19 marzo 2003 n. 21994, P.m. in proc., Musto, rv. 225443, secondo cui «la conclusione che, nel concorso tra una causa estintiva del reato ed un’altra più favorevole di non punibilità, quest’ultima deve risultare in modo palese è confermata dalla espressa clausola di salvezza contenuta nell’art. 531, comma 1, c.p.p.».

Mette conto ribadire, dunque, che il giudice, solo all’esito dell’istruttoria dibattimentale, quindi allorquando si accinge alla valutazione del compendio probatorio acquisito, può disporre di tutti gli elementi per addivenire anche alla esatta qualificazione giuridica del fatto: orbene nel caso di ritenuta configurabilità di un reato diverso e meno grave rispetto a quello contestato, tale da risultare prescritto, non pare che possano esservi dubbi che, in siffatta ipotesi, il giudice, in mancanza della prova evidente (nel senso della sua «constatazione» e non del suo «apprezzamento») dell’innocenza, ha il dovere di pronunciare declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, senza procedere ad alcun approfondimento nella valutazione del materiale probatorio agli atti.

Parimenti, intervenuta la causa estintiva del reato di cui all’imputazione, non potrà il giudice, all’esito dell’istruttoria dibattimentale ed in presenza di un compendio probatorio insufficiente o contraddittorio, esercitare i poteri di ufficio ex art. 507 c.p.p. (possibilità ammessa anche per il giudice ritiratosi in camera di consiglio per la deliberazione della sentenza: cfr. Sez. 3, n. 8528 del 19/08/1993 Ud. – dep. 14/09/1993 – Rv. 195160), ma dovrà dichiarare l’estinzione del reato enunciandone la causa nel dispositivo. Altrimenti, a voler privilegiare una formula liberatoria nel merito, a fronte di una causa estintiva, allorquando si è in presenza di una prova insufficiente o contraddittoria, si perverrebbe al risultato paradossale che la evidenza di cui all’art. 129 cpv. c.p.p. ricorrerebbe anche nel caso di ambiguità probatoria ex art. 530, secondo comma, stesso codice: il che determinerebbe una ingiustificata equiparazione tra una posizione processuale di evidenza di innocenza ed una situazione processuale di incertezza probatoria.

In definitiva, la regola probatoria di cui all’art. 530, comma 2, c.p.p. – cioè il dovere per il giudice di pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilità – appare dettata esclusivamente per il normale esito del processo che sfocia in una sentenza emessa dal giudice al compimento dell’attività dibattimentale, a seguito di una approfondita valutazione di tutto il compendio probatorio acquisito agli atti; tale regola, giova ribadirlo, non può trovare applicazione in presenza di una causa estintiva del reato: in una situazione del genere – a meno che il giudice non sia chiamato a dover approfondire ex professo il materiale probatorio acquisito (come si avrà modo di dire in prosieguo) – vale invece la regola di giudizio di cui all’art. 129 c.p.p. in base alla quale, intervenuta una causa estintiva del reato, può essere pronunciata sentenza di proscioglimento nel merito solo qualora emerga dagli atti processuali «positivamente» («…risulta evidente…»: art. 129, comma 2, c.p.p.), senza necessità di ulteriore approfondimento, l’estraneità dell’imputato a quanto contestatogli.

Coerente con questa impostazione è anche la uniforme giurisprudenza di legittimità secondo cui deve escludersi che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre all’annullamento con rinvio, possa essere rilevato dal giudice di legittimità che, in questi casi, deve invece dichiarare l’estinzione del reato.

In caso di annullamento, infatti, il giudice del rinvio si troverebbe nella medesima situazione che gli impone l’obbligo della immediata declaratoria della causa di estinzione del reato: e ciò anche in presenza di una nullità di ordine generale che, dunque, non può essere rilevata nel giudizio di legittimità, essendo l’inevitabile rinvio al giudice del merito incompatibile con il principio dell’immediata applicabilità della causa estintiva, così come precisato da Sez. Un. 28 novembre 2001 n. 1021/02, Cremonese, rv 220511.

Nel solco della sentenza Cremonese si colloca poi la puntualizzazione operata da Sez. Un. 27 febbraio 2002 n. 17179, Conti, rv. 221403.

4. Deve essere ora esaminato l’ulteriore profilo, di cui si è già fatto cenno, rilevante ai fini della soluzione della questione controversa: il diritto alla prova.

Al riguardo, una risposta positiva ed inequivocabile, circa la compatibilità di tale diritto con l’indirizzo interpretativo che queste Sezioni Unite ritengono condivisibile, è riscontrabile nelle decisioni della Corte Costituzionale in precedenza evocate.

Ed invero, il Giudice delle leggi – dopo essere intervenuto affermando la equiparazione tra la evidenza della prova dell’innocenza e la mancanza di prova di colpevolezza – ha limitato i suoi successivi interventi, in materia, ad una declaratoria di incostituzionalità quanto alla mancata previsione della rinunciabilità della causa estintiva (amnistia e prescrizione), sottolineando come detta rinunciabilità debba considerarsi quale strumento efficace per l’esplicazione del diritto di difesa ai fini del perseguimento dell’interesse morale ad un’assoluzione con formula piena e di un interesse patrimoniale sul versante dei riflessi civilistici, a fronte dell’interesse a non più perseguire (principio dell’economia processuale); la Corte Costituzionale, dunque, in alcun modo ha accennato a profili di incostituzionalità (disparità di trattamento, violazione del diritto di difesa, etc.) con riferimento all’art. 129, comma secondo, c.p.p., avendo ritenuto del tutto conforme ai princìpi costituzionali siffatta disposizione, ritenendola adeguatamente bilanciata con la rinunciabilità della causa estintiva: maturata la prescrizione del reato, ed a fronte della mancanza dell’evidenza della prova dell’innocenza, l’imputato, volendo, può far valere il suo diritto alla rinuncia alla prescrizione, correndo il rischio consapevole di un verdetto sfavorevole all’esito del richiesto approfondimento.

E non è priva di rilievo la natura della rinuncia della prescrizione quale diritto personalissimo dell’imputato, come pacificamente ritenuto nella giurisprudenza di questa Corte: si veda, ex plurimis, Sez. 2, n. 23412 del 09/06/2005 Ud. (dep. 21/06/2005) Rv. 231879, secondo cui «la rinuncia alla prescrizione non rientra nel novero degli atti processuali che possono essere compiuti dal difensore a norma dell’art. 99 c.p.p., in quanto costituisce, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 157 nella parte in cui non prevedeva tale possibilità a favore dell’imputato, un diritto personalissimo dello stesso che è a lui personalmente ed esclusivamente riservato. (Fattispecie in cui la Corte di cassazione ha escluso altresì la possibilità che il silenzio dell’imputato, in presenza di una richiesta avanzata dal difensore, possa essere equiparato ad un comportamento concludente diretto a manifestare una positiva volontà alla rinuncia)». Detta decisione – peraltro intervenuta prima ancora che la rinuncia della prescrizione fosse normativamente prevista con la legge cd. «ex Cirielli» n. 251/2005 del 5 dicembre 2005 entrata in vigore l’8 dicembre 2005 – appare inequivocabile nel senso che il silenzio dell’imputato non può essere interpretato in altro modo se non come esercizio del diritto a non rinunciare alla prescrizione. Sulla stessa linea si pongono Sez. 6, n. 12380 del 21/9/2004 Ud. (dep. 1/4/2005), Rv. 231030, Lucchesu ed altri, e – con riferimento al novellato art. 157 c.p. in conseguenza della legge «ex Cirielli» – Sez. 1, n. 18391 del 13/3/2007 Cc. , Rv. 236576, con la quale è stato precisato che «la rinuncia alla prescrizione – esercitabile dall’imputato di persona ovvero con il ministero di un procuratore speciale, solo dopo la maturazione del relativo termine di legge – presuppone, ai sensi dell’art. 157 c.p., così come novellato dall’art. 6 della L. 5 dicembre 2005 n. 251, una dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti».

Ulteriore e autorevole conferma, a sostegno della prevalenza della causa estintiva della prescrizione, in presenza di un compendio probatorio insufficiente o contraddittorio, sulla formula di proscioglimento nel merito, viene da quanto evidenziato, proprio in relazione al diritto alla rinuncia alla prescrizione, nella sentenza delle Sezioni Unite, Conti già citata, argomentando che la disposizione di cui all’art. 129 c.p.p. opera «con carattere di pregiudizialità nel corso dell’intero iter processuale, inteso come giudizio in senso tecnico, quello cioè di primo grado, di appello o di cassazione, fasi queste in cui si instaura la piena dialettica processuale tra le parti e il giudice ha piena capacità cognitiva per scegliere la formula liberatoria più opportuna, nel rispetto delle legittime aspettative dell’imputato (cfr. S.U. 29.12.2001, PG c/ Angelucci). Due sono le funzioni fondamentali che assolve tale norma: la prima è quella di favorire l’imputato innocente (o comunque da prosciogliere o assolvere), prevedendo l’obbligo dell’immediata declaratoria di cause di non punibilità in ogni stato e grado del processo, la seconda è quella di agevolare in ogni caso l’exitus del processo, ove non appaia concretamente realizzabile la pretesa punitiva dello Stato; implicita a tali funzioni ve n’è una terza, consistente nel fatto che l’art. 129 c.p.p. rappresenta, sul piano processuale, la proiezione del principio di legalità stabilito sul piano del diritto sostanziale dall’art. 1 c.p. In sostanza, l’art. 129 si muove nella prospettiva di troncare, allorché emerga una causa di non punibilità, qualsiasi ulteriore attività processuale e di addivenire immediatamente al giudizio, anche se fondato su elementi incompleti ai fini di un compiuto accertamento della verità da un punto di vista storico» (Sez. Un., Conti, 27 febbraio 2002 n. 17179).

Infine, volendo seguire il secondo orientamento, si dovrebbe ammettere la possibilità per l’imputato, non rinunciante alla prescrizione (avendo dunque esercitato, con il silenzio, il diritto a non rinunciare alla causa estintiva) e nei cui confronti è stata dichiarata la prescrizione sul presupposto di un compendio probatorio insufficiente o contraddittorio, di proporre poi ricorso per cassazione – anche nel caso di mancanza di statuizioni civili (quanto ai riflessi della questione posta al vaglio di queste Sezioni Unite sulle statuizioni civili, con riferimento all’art. 578 c.p.p., si dirà oltre) – deducendo violazione di legge e/o vizio di motivazione sull’asserito rilievo della obbligatorietà per il giudice di pronunciare assoluzione con la formula di merito: il che comporterebbe, innanzi tutto, la violazione del principio di economia processuale, nei sensi già posti in rilievo.

Può dunque essere enunciato il seguente principio di diritto: «All’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità».

5. Per completezza argomentativa, non può essere omesso l’esame della disciplina contemplata nell’art. 578 c.p.p., la cui interferenza con quella ex art. 129 c.p.p. sembra significativa nell’economia delle valutazioni concernenti il ricorso rimesso alla cognizione di queste Sezioni Unite.

La disposizione di cui al secondo comma dell’art. 129 c.p.p. deve coordinarsi con la presenza della parte civile e con una pronuncia di una condanna in primo grado: in tal caso, infatti, il giudice dell’appello – nel prendere atto di una causa estintiva del reato verificatasi nelle more del giudizio di secondo grado – è tenuto a pronunciarsi, ai sensi dell’art. 578 c.p.p., sull’azione civile: deve quindi necessariamente compiere una valutazione approfondita dell’acquisito compendio probatorio, senza essere legato ai canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di estinzione del reato quando la prova della innocenza non risulti ictu oculi.

Le decisioni di questa Corte che hanno affrontato l’argomento risultano sostanzialmente univoche nel senso della riconosciuta incidenza, sulla statuizione penale, delle valutazioni operate dal giudice, sul materiale probatorio acquisito, ai fini delle statuizioni civili.

Spunti di riflessione offre la sentenza della Sesta Sezione, n. 1748/06, del 10 novembre 2005, Bisci ed altri, posto che, oltre a proporre ulteriori considerazioni a favore della prevalenza, in generale, della causa estintiva su quella del proscioglimento nel merito nel caso di compendio probatorio ambivalente, affronta anche specificamente la questione del rapporto dell’art. 129 con l’art. 578 c.p.p.

Tale decisione, dopo aver ricostruito i profili salienti degli orientamenti giurisprudenziali (innanzi illustrati), adotta, a sostegno del primo (da queste Sezioni Unite ritenuto coindivisibile, come detto), due ordini di argomentazioni, incentrate ora su considerazioni di carattere istituzionale e di contemperamento degli interessi in gioco, ora sull’analisi sistematica della disciplina ex art. 578 c.p.p. Quanto alle prime, in detta sentenza si sottolinea che l’estinzione del reato priva, in linea di principio, il giudice penale di ogni motivo per l’esercizio della sua giurisdizione, sicché soltanto esigenze di tutela dei diritti fondamentali della persona possono costituire una deroga per prorogarlo; ora, tali esigenze sussistono «quando vi sia la evidenza della innocenza sostanziale dell’imputato (per elementi positivi o per mancanza assoluta di prove a suo carico), con necessità dunque di restaurare immediatamente la sua sfera di onorabilità, ma non potrebbe ravvisarsi alcuna tutela della onorabilità o di altri diritti fondamentali qualora il giudice, invece di prendere atto della causa estintiva del reato, dovesse persistere nella sua cognizione di merito per concludere che agli atti vi sono uno o più elementi probatori a carico, sia pure non di tale momento da fondare una dichiarazione di responsabilità penale». Per quanto riguarda il contemperamento degli interessi, la sentenza Bisci fa leva sulla rinunciabilità all’amnistia e alla prescrizione, già a suo tempo introdotta dalle decisioni del giudice delle leggi: «posto che l’imputato ha il diritto costituzionalmente garantito ad una decisione penale di merito, attraverso la rinunzia alla causa di estinzione, non è ragionevole che, nella ipotesi di mancata rinunzia e quindi di operatività della causa estintiva, l’esercizio della giurisdizione sia prorogato di ufficio, in modo tale che l’imputato si giovi della efficacia preclusiva connessa alla sentenza penale dall’art. 652 c.p.p., pur in presenza di elementi che nel giudizio civile o amministrativo, eventualmente promossi dai danneggiati, potrebbero essere debitamente valorizzati». Ne deriva che, «in presenza di una causa estintiva del reato, non è più applicabile la regola probatoria prevista dal secondo comma dell’art. 530 c.p.p., da adottare quando il processo sfoci nel suo esito ordinario, ma è necessario che emerga positivamente dagli atti, e senza necessità di ulteriori accertamenti, la prova della innocenza dell’imputato», procedendo il giudice in questi casi «più che ad un apprezzamento, ad una constatazione». Da ciò consegue inoltre che «non è consentito al giudice di applicare l’art. 129 c.p.p. in casi di incertezza probatoria o di contraddittorietà degli elementi di prova acquisiti al processo, anche se, in tali casi, ben potrebbe pervenirsi alla assoluzione dell’imputato per avere il quadro probatorio caratteristiche di ambivalenza». Se è vero, prosegue la sentenza Bisci, che l’art. 129 c.p.p. impone di dichiarare la causa estintiva quando non risulti evidente che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, ecc., è altresì chiaro che «tale principio deve coordinarsi con la presenza della parte civile e di una condanna in primo grado che impone ai sensi dell’art. 578 c.p.p. di pronunciarsi sulla azione civile e quindi di non essere legati ai canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di proscioglimento quando la prova della innocenza non risulti ictu oculi. Sta di fatto che la pronuncia ex art. 578 c.p.p. fa stato tra le parti e dunque si impone, pur in presenza della causa estintiva, un esame approfondito di tutto quanto rilevi ai fini della responsabilità civile (mentre ciò che riguarda esclusivamente la responsabilità penale senza incidere su quella civile non deve essere oggetto di esame quando ricorre la causa estintiva). Se da questo esame emerge la prova della innocenza, si dovrà ricorrere alla corrispondente formula assolutoria, in quanto l’obbligo di declaratoria immediata della causa estintiva si basa sul principio di economia processuale; pertanto, quando l’esame ex professo di altri aspetti è effettuato, sia pure per esigenze di decisione non penale, l’accertamento effettuato non può essere posto nel nulla e può portare ad una assoluzione di merito, riprendendo vigore come canone interpretativo quello del favor rei».

Così ricostruita la disciplina di cui all’art. 578 c.p.p., la sentenza Bisci afferma che «in questi limiti, può dunque ritenersi che la valutazione approfondita a fini civilistici, che porti all’accertamento della evidenza della mancanza di responsabilità penale con una formula assolutoria ampia, possa incidere sulla decisione penale, pur in presenza di una causa estintiva, sebbene non risulti ab initio evidente che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, ecc.»; di conseguenza, «una eventuale assoluzione in luogo del proscioglimento per causa estintiva può avere luogo solo se l’esame ai fini civilistici porti ad affermare la applicabilità della relativa ampia formula assolutoria, e quindi senza pregiudizio per il principio di economia processuale, ma qualora non emerga che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, ecc., non potrà addivenirsi ad una pronuncia assolutoria. Pertanto, fuori dal caso in cui non opera il principio di economia processuale, dovendosi comunque valutare la responsabilità ex professo ai fini civilistici, l’unico modo per ottenere un esame più approfondito, in mancanza della evidenza che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, ecc., consisterà nel rinunciare alla causa estintiva».

Considerazioni del tutto analoghe vengono svolte in Sez. IV, 3 febbraio 2004 n. 14863, Micucci, rv. 228597.

Le argomentazioni delle sentenze Bisci e Micucci appaiono del tutto condivisibili nella parte in cui sottolineano la rilevanza della rinuncia alla causa estintiva e l’influenza che la valutazione di merito del compendio probatorio, imposta ex lege dal dettato dell’art. 578 c.p.p. al giudice dell’appello – in presenza di una causa estintiva del reato e di una condanna di natura riparatoria in primo grado, anche generica, a favore della parte civile – esplica anche sulla statuizione penale: nel senso che la ritenuta innocenza, accertata all’esito di un completo ed approfondito esame svolto ex professo, per dettato normativo, e quindi senza violazione del principio dell’economia processuale cui si ispira il secondo comma dell’art. 129 c.p.p., deve essere affermata con la formula di proscioglimento di merito in luogo della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

Ad avviso di queste Sezioni Unite non sussiste alcuna ragione per la quale, in sede di appello, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 578 c.p.p., non debba prevalere la formula assolutoria nel merito rispetto alla causa di estinzione del reato: e ciò, non solo nel caso di acclarata piena prova di innocenza, ma anche in presenza di prove ambivalenti, posto che alcun ostacolo procedurale, né le esigenze di economia processuale (che, come più volte detto, costituiscono, con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, la ratio ed il fondamento della disposizione di cui all’art. 129, comma secondo, c.p.p.), possono impedire la piena attuazione del principio del favor rei con l’applicazione della regola probatoria di cui al secondo comma dell’art. 530 del codice di rito. In proposito giova evidenziare che, per quanto concerne specificamente la vicenda oggetto della sentenza Bisci sopra richiamata, appare riscontrabile una mancanza di omogeneità tra le statuizioni, penali e civili, adottate dalla Corte d’Appello con la decisione oggetto del ricorso: da un lato, la declaratoria di prescrizione sul versante penale, pronunciata sul rilievo di un compendio probatorio ambivalente (in ordine all’elemento psicologico del reato) che – in quanto così valutato all’esito di un completo ed approfondito esame delle prove, effettuato ai sensi dell’art. 578 c.p.p. senza i limiti imposti dal principio dell’economia processuale, come rilevato dalla stessa Corte territoriale – avrebbe dovuto comportare l’assoluzione nel merito, dovendo, in tal caso, trovare applicazione la regola probatoria di cui all’art. 530, comma secondo, c.p.p.; dall’altro lato, la revoca delle statuizioni civili pronunciate dal primo giudice (il quale aveva condannato gli imputati), che avrebbe dovuto trovare il suo logico presupposto nella mancanza di responsabilità e, quindi, in una sentenza assolutoria.

Da segnalare, per completezza di esposizione, che muovendo dagli stessi presupposti di carattere generale evidenziati nelle sentenze Bisci e Micucci, in linea con le stesse si pone altresì Sez. 4, n. 33309 del 08/07/2008 (Rv. 241962, imp. Rizzato).

Deve dunque affermarsi che, in presenza di amnistia o prescrizione, la valutazione approfondita a fini civilistici, che porti all’accertamento della mancanza di responsabilità penale – anche per la insufficienza o contraddittorietà delle prove – esplica i suoi effetti sulla decisione penale, con la conseguenza che deve essere pronunciata, in tal caso, la formula assolutoria nel merito.

Va quindi enunciato il seguente principio di diritto: «allorquando, ai sensi dell’art. 578 c.p.p., il giudice di appello – intervenuta una causa estintiva del reato – è chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile, il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova».

Fuori dal caso in cui non opera il principio di economia processuale – dovendo essere valutata la responsabilità ex professo ai fini civilistici – l’unico modo per ottenere un esame più approfondito, in mancanza della evidenza che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, ecc., consisterà, dunque, nel rinunciare alla causa estintiva.

La naturale conseguenza di tutte le considerazioni dianzi svolte, e dei princìpi sopra enunciati, è che analoga soluzione deve essere evidentemente adottata anche qualora, pur in assenza della parte civile, ad un’assoluzione pronunciata in primo grado ai sensi del secondo comma dell’art. 530 c.p.p., impugnata dal P.M., sopravvenga una causa estintiva del reato ed il giudice di secondo grado ritenga infondato detto appello: ed invero, anche in tal caso, l’approfondimento della valutazione delle emergenze processuali – reso necessario dall’impugnazione proposta dal P.M., risultata inidonea a mutare le connotazioni di ambivalenza riconosciute dal primo giudice alle prove raccolte – impone la conferma della pronuncia assolutoria in applicazione della regola probatoria, ispirata al favor rei, di cui al secondo comma dell’art. 530 del codice di rito.

Donde l’affermazione di un ulteriore principio di diritto: «qualora ad una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell’articolo 530 comma 2 c.p.p., appellata dal P.M., sopravvenga una causa estintiva del reato ed il giudice di appello ritenga infondato nel merito l’appello del P.M., deve essere confermata la sentenza di assoluzione».

6. Così fissati i princìpi ai quali deve ispirarsi qualsiasi operazione ermeneutica concernente i rapporti tra la causa estintiva e la sentenza di proscioglimento nel merito nel caso di prova ambivalente, può procedersi all’esame della concreta fattispecie sottoposata al vaglio del Collegio.

Il ricorrente, con la prima doglianza, ha specificamente denunciato violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla declaratoria di prescrizione nella parte in cui è stata riformata la sentenza assolutoria emessa dal Tribunale ai sensi dell’art. 530, secondo comma, c.p.p. con riferimento al secondo fatto delittuoso contestato con l’imputazione al Tettamanti.

La censura, così come proposta, è fondata.

Ed invero, il Tettamanti, relativamente a tale fatto, era stato assolto in primo grado con la formula «perché il fatto non costituisce reato», ai sensi dell’art. 530, secondo comma, c.p.p., come precisato dal giudice in sentenza, e, dunque, sul rilievo della ritenuta sussistenza di elementi di prova dubitativi.

Siffatta situazione è rimasta immutata in appello, pur a fronte dell’impugnazione del P.M. e dopo la disamina del quadro probatorio da parte del giudice del gravame resa indispensabile dalla intervenuta prescrizione e dalla presenza della parte civile (art. 578 c.p.p.), nonché dallo stesso appello incidentale del P.M.

Dal testo dell’impugnata sentenza si rileva che la Corte d’Appello ha valutato come infondati i motivi dell’impugnazione del P.M., inidonei dunque ad indurre ad un convincimento di colpevolezza (al quale non avrebbe potuto far seguito la sentenza di condanna solo perché era frattanto maturata la prescrizione): mette conto sottolineare che la Corte territoriale ha espressamente precisato che, al riguardo, permanevano quegli elementi dubitativi già evidenziati dal primo giudice.

Orbene, appare evidente l’errore in cui è incorsa la Corte distrettuale, laddove – pur sul presupposto della ritenuta infondatezza dell’appello del P.M., che, (solo) se fondato, avrebbe ben legittimato l’applicazione della causa estintiva – ha dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione, erroneamente invocando la disposizione di cui all’art. 129 c.p.p. (posto che, per tutto quanto in precedenza detto, non è richiesta l’evidenza della prova dell’innocenza dell’imputato, ai fini del proscioglimento nel merito, in sede di valutazione ex art. 578 c.p.p.), e violando quindi la regola probatoria stabilita nell’art. 530, cpv., c.p.p., secondo cui deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento nel merito anche allorquando la prova è insufficiente o contraddittoria.

Le ulteriori censure dedotte dal ricorrente, concernenti l’altro addebito oggetto dell’imputazione ed in ordine al quale è stata pronunciata declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, risultano prive di fondamento tenuto conto delle argomentazioni svolte nelle integrative pronunce di primo e secondo grado (laddove è stato posto l’accento su «chiare ed evidenti prove»); e, comunque, in applicazione dei princìpi enunciati sul punto da questa Corte, in alcun modo potrebbero comportare l’annullamento con rinvio: in caso di annullamento, infatti, il giudice del rinvio, si troverebbe nella medesima situazione che impone l’obbligo della immediata declaratoria della causa di estinzione del reato (cfr. Sez. un., sentenza Cremonese, già citata). L’impugnata sentenza deve essere quindi annullata, limitatamente al secondo episodio del contestato reato di appropriazione indebita, «perché il fatto non costituisce reato».

Per quel che riguarda gli effetti civili, resta ovviamente fermo quanto deciso al riguardo dal Tribunale, con riferimento al solo primo episodio (oggetto di condanna, prima, e di declaratoria di prescrizione poi) essendo stata pronunciata assoluzione per il secondo addebito.

Il ricorrente va poi condannato alla rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili Frischia e Tarquini, liquidate in complessivi euro 4.275,00, oltre I.V.A. e C.P.A.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al secondo episodio dell’appropriazione di lire 50.000.000 perché il fatto non costituisce reato.

Rigetta nel resto il ricorso.

S. Bottiglieri
Author: S. Bottiglieri